domenica 23 dicembre 2012

I DIFETTI DEL LEGNO





Il legno è un materiale che può presentare diversi difetti per tanti motivi: primo fra tutti l’attacco degli insetti xilofagi, cioè mangiatori del legno; questi possono attaccare il tronco, sia quando la pianta è ancora in piedi, sia quando è già stato tagliato in tavolame. Generalmente l’insetto adulto deposita le uova negli anfratti della corteccia e quando queste si schiudono, la larva che ne esce si fa strada attaccando prima l’alburno, che è più tenero, per poi passare anche al durame, scavando gallerie più o meno grandi a seconda dell’insetto in questione. Perché ci sia un attacco da parte di questi parassiti, il legno deve avere una certa umidità; si è scoperto infatti che con una umidità pari o al di sotto dell’8%, gli insetti xilofagi sono poco portati ad attaccare il legno. Teniamo conto però che il tavolame in vendita è commercialmente accettato con una umidità che oscilla tra il 12% e il 15%, e tutti sappiamo che il classico tarlo attacca volentieri i mobili antichi che abbiamo in casa, con una umidità sicuramente bassa e non sono protetti da alcuna vernice, che è un ottimo dissuasore per questi parassiti. Esistono in commercio degli antiparassitari che combattono l’azione di questi insetti o la prevengono, ma sono destinati ai legni più pregiati, visto che il trattamento risulta abbastanza costoso.
Esistono inoltre altri parassiti, ma di tipo vegetale: sono i funghi e le muffe; perché questi si possano sviluppare devono, anche in questo caso, esserci delle condizioni ambientali particolari, soprattutto una umidità almeno del 25% ed una temperatura compresa tra 0°C e 40°C; al di sotto e al di sopra di queste temperature i funghi non proliferano. Di funghi ne esistono di due categorie: una macchia il legno in modo definitivo, l’altra attacca il legno facendolo marcire e scavandolo; in entrambi i casi il legno colpito deve essere asportato.
Naturalmente, oltre ai difetti provocati dai vari parassiti, ci sono quelli morfologici che nascono da condizioni ambientali in cui è vissuto l’albero, o da caratteristiche strutturali del tronco.
Uno, per esempio, è la  lunatura  o  doppio alburno  che si verifica per effetto del gelo, che atrofizza le cellule dell’alburno più vicine al durame, causandone il distacco ed impedendone la trasformazione in durame; poi, col tempo, si forma un nuovo alburno che procederà normalmente, diventando durame a sua volta, ma la parte di alburno congelata rimarrà sempre una zona a sé stante e non sarà mai integrata solidamente nel tronco che, una volta ridotto in tavole, darà origine a del legno scarsamente utilizzabile.



Un altro difetto è il  cuore eccentrico  che viene provocato generalmente da una crescita anomala del tronco che, nascendo su un terreno inclinato, parte con la base arcuata per riportarsi poi in verticale;


 in questa parte curva si riscontra che il midollo è spostato verso la zona a monte e gli anelli annuali risultano deformati, infatti sono più stretti nella zona a monte, mentre sono più dilatati nella zona a valle. Questo comporta la presenza di  legno di compressione  a monte e di  legno di tensione  a valle; la parte curva del tronco risulta così inutilizzabile, in quanto il legno in quelle condizioni sarà sempre instabile per le notevoli tensioni interne che ne risultano.


C’è un’alta serie di “ difetti “ che noi riscontriamo nelle tavole ottenute tagliando un tronco, sono i nodi; questi elementi tondeggianti, di legno più scuro e più compatto ci sono perché rappresentano l’impianto di un ramo nel fusto; abitualmente si distinguono in tre categorie: nodi sani o vivi, nodi mobili o morti  e  nodi a baffo.


Il nodo vivo è quello che è solidale con la tavola e si presenta fisso e duro; il nodo morto invece può essere mobile (nel senso che, per la sua conformazione contorta, non riesce a sfilarsi dalla tavola, ma è staccato), oppure può mancare del tutto la parte centrale, lasciando quindi un foro al centro del nodo stesso (che significa che è riuscito a sfilarsi). Questi due tipi di nodi si trovano nelle tavole ottenute con un taglio tangenziale; per il nodo a baffo il discorso è diverso perché lo si vede esclusivamente nelle tavole centrali, in cui la sega che ha tagliato le tavole è capitata in asse con un ramo (oppure nelle tavole tagliate radialmente) e il nodo si vede sezionato in tutta la sua profondità, evidenziando la tipica forma a corno rovesciato.
I nodi sono tipici delle conifere e le tavole che vengono ottenute dal taglio di questi alberi vengono classificate in 5 categorie di pregio decrescente:

Prima scelta                : legno bello senza nodi o con nodi vivi piccolissimi.
Seconda scelta           : legno bello, ma con nodi anche morti, ma senza nodi a baffo.
Terza scelta                 : legno meno bello con nodi grossi, anche morti, e con nodi a     
                                          baffo.
Quarta/quinta scelta : legno brutto con molti nodi, tavole storte o imbarcate, utili  
                                          solo per lavori scadenti o cantieristica edile.

E’ chiaro che, per ottenere delle tavole senza nodi nelle conifere, bisogna occuparsi delle piante, a cui si dovranno potare i rametti e togliere le gemme che si formano nella parte inferiore del fusto, per fare in modo che i rami (che sono indispensabili per la sopravvivenza dell’albero) si sviluppino solamente oltre una certa altezza, in maniera che dalla parte inferiore si possano ottenere tavole di prima scelta, che per le conifere sono considerate commerciali quando hanno una lunghezza leggermente superiore ai 4 metri.
Dobbiamo spendere qualche parola anche a proposito di un altro difetto dei tronchi: le crepe; queste possono essere al centro o all’esterno del tronco. Le prime si verificano quasi sempre negli alberi piuttosto vecchi, le seconde si trovano anche negli alberi giovani che subiscono dei forti sbalzi di temperatura, che provocano una diversa evaporazione tra la parte esterna (che si asciuga di più e si ritira), e quella interna (che mantiene la propria umidità e dimensione).
E’ ovvio che tronchi di questo tipo non sono destinati al taglio in tavole, perché la sfruttabilità del tavolame che ne risulterebbe sarebbe molto bassa. Le crepe, però, si possono verificare anche nelle tavole ricavate da tronchi sani, le quali durante la stagionatura cominciano a fendersi partendo dalle estremità; questo è un problema tipico delle tavole di rovere e tutta la sua famiglia, e per limitare i danni, vengono piantate delle lamierine di ferro ondulate, o delle graffe, nelle teste che si stanno aprendo, per cercare di trattenere le due parti della tavola che si stanno allontanando. Si cerca comunque di evitare di far nascere queste crepe, spalmando le teste delle tavole con alcune sostanze cerose, che bloccano l’evaporazione in quella zona, impedendone il ritiro eccessivo che è la causa che origina la crepa.
Parlando di rovere (e di tutta la sua famiglia) mi ricordo che una volta tutti i tronchi che contengono tannino, e quindi anche il castagno, venivano lavati nei torrenti per eliminare questa sostanza, in quanto al momento della verniciatura trasparente, i solventi facevano affiorare questo prodotto che creava delle macchie nella superficie, rovinando tutto il lavoro fatto prima. C’era anche un altro sistema in uso: dopo aver tagliato il tronco in tavole, queste venivano messe all’aperto, in piedi leggermente inclinate, appoggiate ad un palo orizzontale, ed alternate incrociandole, per fare in modo che le piogge dilavassero piano piano il tannino.
Oggi queste operazioni non si fanno quasi più perché sono state inventate delle sostanze che si danno sulle superfici da verniciare, che si chiamano  isolanti, i quali  creano una barriera impenetrabile ai solventi, che quindi non entrano in contatto con il tannino e pertanto non lo fanno affiorare.  Ci sono oggi anche le vernici ad acqua che, non contenendo solventi, non fanno affiorare il tannino e quindi il problema delle eventuali macchie in fase di verniciatura è eliminato.

venerdì 30 novembre 2012

IL TRONCO DELL'ALBERO (seconda parte)



 Parlando sempre di alberi che danno legname da lavoro, è difficile trovare delle piantagioni destinate al taglio annuale, ma ci si limita ad abbattere i singoli alberi, o gruppi di alberi, che si trovano nei boschi o nelle foreste già in età e dimensione utile per essere trasformati in materiale da lavoro: tavolame o impiallacciatura.
Naturalmente per potere utilizzare un tronco, bisogna prima abbattere l’albero; una volta l’unico sistema era l’uso della scure, con cui si colpiva il tronco alla base, asportandone delle porzioni ad ogni colpo, finchè non si arrivava a ridurre il sostegno dell’albero a pochi centimetri di diametro. A quel punto si spingeva il tronco con due pertiche nella parte alta, facendolo cadere dalla parte opposta ai taglialegna, che si dovevano preoccupare di dirigerlo, nella caduta, in modo da non fare danni agli alberi circostanti.
Successivamente si è passati al segone a due manici, che veniva manovrato da due persone che tenevano l’attrezzo orizzontale, affondandolo nel tronco con movimenti alternati (i denti della sega erano affilati in modo da poter lavorare nei due sensi) fino circa a metà del diametro. A questo punto bisognava inserire dei cunei di legno duro o di ferro nella posizione in cui era iniziato il taglio, per tenere aperta la fessura che aveva prodotto l’opera della sega, onde evitare che, con l’avanzamento del lavoro, il peso del tronco, cadendo all’indietro, chiudesse il taglio, impedendo così lo scorrimento della sega. Questo era un lavoro comunque gravoso, in quanto il segone si impastava con la segatura che produceva durante il taglio, aumentando l’attrito e quindi la fatica degli operai.
Fortunatamente qualche tempo dopo qualcuno inventò la  sega americana , che aveva una notevole innovazione: lungo la lama aveva ogni tanto, al posto di un dente, un elemento inclinato che agiva come una spatola, asportando verso l’esterno la segatura prodotta durante la lavorazione e migliorando notevolmente l’attrito.
Oggi si usano le motoseghe a catena, che in certi casi sono molto lunghe, se destinate a tagliare alberi con diametri notevoli; in compenso è stato messo a punto un sistema di taglio per costringere il tronco a cadere in una direzione precisa (figura 1):






Figura 1



   
Si effettua un doppio taglio anteriormente, per togliere una porzione orizzontale di legno a forma di cuneo, poi si inizia a tagliare il tronco da dietro, operando il consueto taglio orizzontale (aiutandosi con i soliti cunei di ferro), ma restando in un piano più alto di qualche centimetro rispetto alla base del cuneo che è stato tolto anteriormente. Quella porzione di legno rimasta intatta tra il taglio orizzontale e il vuoto anteriore a cuneo, fa sì che il tronco cada come se fosse guidato da una cerniera, dirigendolo nella zona designata.
L’abbattimento degli alberi deve avvenire nel periodo invernale, quando la pianta si trova in una fase di letargo; il momento giusto per il taglio non viene determinato scientificamente, ma è legato a sperimentazioni empiriche che sono il frutto di una serie di comportamenti legati alle tradizioni dei taglialegna dei tempi passati.
Esiste un bel libro che si intitola: “ La natura del legno “ scritto da Erwin Thoma, che ha passato tutta una vita tra boschi, tronchi tagliati e la sua segheria in Austria; in questo libro (che consiglio a tutti di leggere) lui racconta le proprie esperienze, le tradizioni che l’hanno motivato e le conseguenze delle sue scelte. Facendone un succinto riassunto, Thoma ci racconta che gli alberi vanno tagliati con la luna nuova e, dopo l’abbattimento, rivolti con la cima a valle su un versante inclinato, fino a primavera, senza asportare i rami che, per uno spirito di sopravvivenza tendono a richiamare la linfa, aiutati dalla forza di gravità, per poter far spuntare le nuove gemme. In questo modo liberano il fusto di una buona parte di linfa con quelle sostanze che possono farlo marcire, e ne iniziano la stagionatura. Sempre secondo quello che dice Thoma, in questo modo si evita che i tronchi abbattuti ed in seguito accatastati, dopo aver tolto i rami, vengano attaccati dagli insetti xilofagi, soprattutto dal Bostrico.
Questo almeno è quello che bisognerebbe fare per ottenere il legno migliore e, probabilmente, è quello che si faceva una volta; al giorno d’oggi non possiamo pensare di fare lavorare una segheria soltanto in primavera, infatti le moderne segherie lavorano su due turni almeno, per tutto l’anno. Questo significa che per poter alimentare le macchine preposte al taglio dei tronchi in tavolame, serve un certo numero di autocarri carichi di legname ogni giorno, per 5 giorni la settimana.
Una volta accatastati i tronchi bisogna trasportarli fino alla segheria o alla tranceria, per essere poi ridotti in tavole oppure in fogli di impiallacciatura; per fare questo ci sono in genere due soluzioni: la prima è caricarli su degli autocarri appositi, che però devono avere una strada di accesso alle cataste nei boschi, altrimenti bisogna costruirla, preoccupandosi anche di spianare un piazzale abbastanza ampio da fare curvare gli autocarri per il ritorno. La seconda è utilizzabile quando ci si trova in prossimità di un fiume abbastanza largo da poter preparare delle “ zattere “ di tronchi, il cui perimetro è costituito da tronchi vincolati tra loro, per creare un unico elemento galleggiante che viene guidato da due rimorchiatori (uno davanti ed uno dietro) fino a destinazione.
Questo tipo di trasporto si chiama  fluitazione  ed ha un duplice vantaggio: il primo è che non si devono percorrere reti stradali, con tutti i problemi che comportano; il secondo è che, durante il trasporto i tronchi subiscono un lavaggio dei vasi che trasportano la linfa, riducendo notevolmente la possibilità che il legno marcisca una volta stoccato sui piazzali, in attesa della lavorazione.
Una volta che i tronchi sono stati sistemati nei depositi, da cui verranno spostati solo quando sarà il loro turno di lavorazione, bisogna stare attenti che non si comincino ad essiccare oltre un certo limite, perché la stagionatura del legname deve essere effettuata solo dopo che è stato ridotto in tavolame. Se i tronchi si dovessero asciugare troppo, inizierebbe a contrarsi il legno in maniera disomogenea e questo finirebbe per creare tante crepe radiali nei tronchi, che rovinerebbero irrimediabilmente il tavolame che ne viene ricavato. Non è insolito infatti vedere innaffiare le cataste di tronchi al sole, quando fa caldo, per mantenere il tasso di umidità sotto controllo.

domenica 11 novembre 2012

IL TRONCO DELL'ALBERO (prima parte)



Il legno si ottiene, come tutti sanno, dal tronco degli alberi. Se facciamo una sezione orizzontale di un tronco di una certa età, cresciuto in una zona appartenente alla fascia temperata (cioè una zona in cui si susseguono le quattro stagioni), riscontriamo varie zone concentriche: all’esterno c’è la corteccia che ha lo scopo di proteggere il tronco e non ha nessun interesse per il legname da lavoro, quindi viene scartata. C’è un unico caso in cui la corteccia viene utilizzata come materiale produttivo ed è nella Quercia sughera, in cui i tronchi vengono decorticati ogni 9-12 anni per ottenere il sughero.


All’interno della corteccia troviamo il Libro, che è un tessuto vascolarizzato, molto sottile, che è percorso (in discesa) dalla linfa dopo che è stata arricchita, tramite la Fotosintesi Clorofilliana, di zuccheri che servono come nutrimento per la pianta e che viene distribuita nei Raggi Midollari, fino ad arrivare quasi sempre al midollo, al centro del tronco. Il Libro contribuisce alla formazione della corteccia nella zona più interna.
Andando sempre verso l’interno, abbiamo il Cambio che è una frazione molto sottile del tronco, che produce le cellule che danno origine all’Alburno, il quale è costituito da una fitta rete di canali, in cui transita la linfa grezza ascendente, e che si estende per un certo tratto verso il centro del tronco, perdendo funzionalità mano a mano che si avvicina all’interno in quanto viene impregnato, col passare degli anni, da una sostanza prodotta dalla pianta stessa, chiamata Lignina, che irrigidisce l’Alburno trasformandolo in Durame, che costituisce la parte centrale del fusto e quindi l’ossatura di sostegno.
Il Durame rappresenta la parte utilizzabile del tronco come legname da lavoro e si differenzia dall’Alburno (che viene sempre scartato, in quanto spugnoso) per una colorazione generalmente più scura, derivante appunto dalla presenza della lignina. All’interno del Durame c’è una piccola porzione, più o meno cilindrica, che si chiama Midollo, che si irradia verso la corteccia attraverso i Raggi Midollari ed, insieme, costituiscono i serbatoi di riserve nutrizionali dell’albero durante il periodo di quiescenza invernale.
Il Midollo, una volta che il tronco è stato tagliato in tavole, rappresenta una parte di scarto e deve essere eliminato perché è spugnoso e marcescibile e, se lasciato all’interno di una tavola, per effetto di un ritiro differente, genera delle crepe longitudinali che impediscono l’utilizzo completo della tavola in questione.
I raggi midollari sono molto evidenti in certi legni come quelli appartenenti alla famiglia della quercia (quindi, oltre la quercia, il rovere, la farnia, il cerro, il leccio e la roverella), in cui formano le famose specchiature, ed anche nel faggio e nell’acero.
Guardando sempre la sezione orizzontale del tronco notiamo che sia il durame che l’alburno sono costituiti da un certo numero di anelli concentrici; questi anelli rappresentano ciascuno la crescita annuale dell’albero e sono generalmente costituiti da due parti: una interna più chiara e più spugnosa, che è il legno cresciuto in primavera, quando c’è abbondanza di acqua nel terreno e la pianta ha bisogno di trasferire verso l’alto dei quantitativi notevoli di linfa, ed una esterna più scura e più compatta, che è il legno autunnale, prodotto dalla pianta dopo il riposo forzato estivo, dovuto alla minor quantità di acqua piovana.
Questa seconda parte dell’anello è più compatta, e quindi più scura, perché le fibre sono più concentrate, in quanto in autunno non c’è l’abbondanza d’acqua di cui invece la pianta può usufruire in primavera per la sua crescita, e quindi le canalizzazioni per il trasferimento della linfa grezza sono in numero minore e più sottili.
A proposito della linfa bisogna dire che viene prodotta dalle radici, che assorbono l’acqua del terreno in cui sono immerse, portandosi dietro anche i sali in essa disciolti, che verranno sfruttati dalla pianta nelle sue elaborazioni chimiche per la produzione di tutte le sostanze che serviranno alla sua sopravvivenza.
Va detto anche che il movimento ascendente della linfa grezza è stimolato da tre fattori: innanzitutto da un “effetto pompa” creato dalle radici che, succhiando l’acqua arricchita dai sali, ne stimolano le risalita; in secondo luogo c’è l’effetto della capillarità dei vasi dell’alburno in cui scorre, che aiutano il liquido a salire; il terzo fattore è l’effetto di aspirazione generato dalle foglie che, sotto l’effetto del calore solare, danno origine ad una traspirazione che produce l’evaporazione di una parte dell’acqua contenuta nella linfa, richiamandone quindi dell’altra. In certi casi la linfa può raggiungere velocità di ascesa notevoli, fino a 15 metri all’ora!
Una volta che la linfa raggiunge le foglie, avviene il processo chimico più importante che si chiama Fotosintesi Clorofilliana. Senza voler scendere troppo nello specifico, possiamo dire che le foglie hanno all’interno dei veri e propri laboratori chimici che si chiamano Cloroplasti, dentro ai quali c’è la Clorofilla (che dà il colore verde alle foglie) e qui avviene la reazione chimica in cui 6 molecole di anidride carbonica (assorbita dall’aria circostante) si combinano con 6 molecole d’acqua (estratte dalla linfa grezza) sotto l’effetto della luce. Il risultato è una molecola di glucosio (sostanza indispensabile alla vita della pianta) più 6 molecole di ossigeno (che le piante ci regalano, perché per loro è una sostanza di scarto).
Prima, a proposito degli anelli di accrescimento annuale, ho fatto riferimento alle piante che crescono in quelle che vengono geograficamente definite Zone Temperate, che sono appunto quelle in cui le condizioni metereologiche variano in funzione delle stagioni; questo significa che l’albero, che ha passato l’inverno in un regime vegetativo limitato e sopravvivendo grazie alle scorte nutrizionali che ha accumulato durante il periodo precedente, riprende la sua vitalità in primavera cominciando a creare un nuovo anello all’esterno dell’alburno chiamato: legno primario.
Verso giugno, con l’inaridirsi della stagione, l’albero rallenta notevolmente la sua attività vegetativa fino a settembre circa, momento in cui, con la ripresa di qualche pioggia, riprende vita e produce il legno secondario, finchè non sopraggiunge l’autunno e le condizioni climatiche fermano la vitalità della pianta e fanno ingiallire e poi cadere le foglie (se non è un albero sempreverde), e l’albero si prepara a passare l’inverno in una forma letargica, fino alla primavera successiva.
Nelle zone tropicali, dove non ci sono i cambiamenti provocati dal succedersi delle stagioni con le loro variazioni metereologiche, questo in genere non succede ed il legno si presenta indifferenziato, quindi senza le variazioni cromatiche e strutturali che si trovano negli alberi delle nostre zone.
Parlando degli alberi che danno legname da lavoro, bisogna ricordare che vengono generalmente suddivisi in due categorie: Latifoglie (cioè piante a foglia larga) e Conifere (cioè piante con i frutti a cono), dette anche Resinose o Aghifoglie (per via degli aghi che sostituiscono le foglie tradizionali).
A proposito di queste ultime va detto che, a proposito dell’Abete, usatissimo in tanti settori, ne esistono di due tipi: quello Rosso e quello Bianco; quello che si usa normalmente, soprattutto per l’edilizia montana, è l’Abete Rosso che, essendo ricco di resina, è durevole e resistente alle intemperie; questo non accade per l’Abete Bianco che è praticamente privo di resina (è presente solo nella corteccia), quindi non si mantiene e non resiste ali agenti atmosferici, salvo che non venga adeguatamente protetto con impregnanti e vernici opportune.
Una cosa che va detta a proposito delle conifere è che più crescono al Nord o in alta montagna, più il legno è pregiato; il motivo è che in queste zone il periodo primaverile è molto più breve che nel Sud o a bassa quota, questo crea quindi nel tronco degli anelli di accrescimento annuali con una divisione paritetica tra il legno primario e quello secondario, migliorando la qualità del legno, in quanto aumenta la densità e la resistenza del materiale.
Parlando sempre di conifere, possiamo affermare che queste sono tra le poche piante che si coltivano per ottenere in continuazione legno da lavoro, altri alberi coltivati per scopi commerciali sono il pioppo e la betulla, che hanno una utilizzazione prevalentemente per la produzione di sfogliati per costruire i compensati. Di pioppi in Italia ne crescono svariati tipi: sono usati come legno in tavolame, per costruire per esempio le cassette da frutta (quando non vengono usate quelle di plastica), oppure per produrre i pannelli di listellare, molto usati in arredamento, oltre che  per produrre i compensati.  
Per il pioppo tremulo il destino è diverso perché qualitativamente è più scadente e quindi il suo utilizzo è legato più alla produzione dei fiammiferi di legno, agli stuzzicadenti e alla preparazione della pasta di legno, per la produzione della carta. In Italia abbiamo circa 100.000 ettari dedicati alla pioppicoltura, ma questo quantitativo non è sufficiente a soddisfare le esigenze nazionali, quindi dobbiamo provvedere ad importarne un discreto quantitativo principalmente dalla Francia e dall’Ungheria. Naturalmente dobbiamo considerare che il taglio degli alberi destinati alle varie lavorazioni deve essere fatto in maniera da garantire un’adeguata sostenibilità; questo significa che se consideriamo un pioppeto, poiché queste piante raggiungono la maturità, e quindi la condizione giusta per essere tagliate, dopo circa 10 anni, dobbiamo abbattere un quantitativo di piante pari ad un decimo ogni anno, in modo da permettere la ricrescita degli alberi in sequenza, anno dopo anno, fino a garantire dopo 10 anni la quantità giusta di individui maturi e pronti per essere tagliati nuovamente. Tutto questo considerando che nelle piantagioni di pioppi generalmente si mettono a dimora dai 250 ai 280 alberelli per ettaro e la produzione media di legname da lavoro si aggira attorno alle 15 tonnellate di legno per ettaro.
Se invece prendiamo in considerazione l’abete, il discorso cambia perché la maturità della pianta l’abbiamo attorno ai 40 anni (che corrisponde ad un diametro di circa 50 cm.) e quindi il ciclo di taglio sostenibile comporta l’utilizzazione dell’abetaia con tagli legati ad un quarantesimo della superficie coltivata. Questo è il periodo minimo per lo sfruttamento degli abeti; sarebbe molto meglio potere effettuare i tagli su piante di 70-80 anni, che hanno dei fusti di diametro attorno agli 80-100 cm., che sono molto più sfruttabili e che danno un legno più stabile.
Da notare che anche in questo caso dobbiamo importare notevoli quantità di Abete Austriaco per sopperire alle necessità nazionali; bisogna fare però una precisazione: quando si parla di abete austriaco, non dobbiamo pensare che tutto il materiale provenga dall’Austria; la denominazione usata serve ad identificare qualitativamente un tipo di albero, la cui provenienza però si estende dalla Bassa Germania fino ai Balcani.