domenica 29 dicembre 2013

LA PRESSA




La pressa è una macchina che generalmente ha due piani paralleli, di cui quello inferiore mobile, spinto da alcuni pistoni oleodinamici; le uniche eccezioni sono le presse multivano che vengono utilizzate da chi produce pannelli di truciolare, MDF, laminati, compensati eccetera che, per motivi pratici, eseguono una pressata cumulativa, risparmiando tempo.
Le presse che si usano in falegnameria hanno i piani in alluminio, perché trasmette bene il calore; queste macchine infatti lavorano generalmente a caldo, visto che esistono sul mercato delle colle termoindurenti che, sfruttando il calore, polimerizzano in pochi minuti. 



La temperatura che si utilizza normalmente oscilla tra gli 80 e i 110°C; più è alta la temperatura e meno i pezzi devono rimanere a contatto con i piani della pressa. In genere i tempi di pressatura, se consideriamo una temperatura di lavoro a 100°C, vengono calcolati considerando 1 minuto, più un minuto per ogni millimetro di spessore del materiale da placcare.
Per esempio se dobbiamo incollare un pannello tamburato, che ha all’esterno due fogli di MDF da 4 mm., si considera 1+4 = 5 minuti di permanenza del pannello nella pressa, usando la tradizionale colla a base di urea e formaldeide.
Esistono comunque anche delle colle viniliche particolari per incollaggi a caldo, ma si opera con temperature più basse, attorno ai 60 – 70°C.
Per ottenere il riscaldamento dei piani ci sono vari sistemi: ad acqua, ad olio, con resistenze elettriche o con sistemi che sfruttano l’induzione magnetica ad alta frequenza. Nei primi due casi ci sono delle serpentine in rame, in cui scorrono i fluidi, annegate nei piani e collegate tra loro con tubi di materiale plastico resistente alle alte temperature.
I sistemi di riscaldamento più frequenti sono due: quello che sfrutta uno scambiatore di calore collegato ad una caldaia (in un locale separato) in cui vengono bruciati gli scarti di lavorazione dell’azienda e, nel secondo caso, si usano delle resistenze elettriche immerse in una vasca di raccolta, prima della pompa che fa circolare il liquido nelle serpentine. Negli altri casi si utilizzano impianti elettrici o elettromagnetici ad alta frequenza per produrre il calore necessario.
Non sempre si usa il calore quando si pressa, perché il riscaldamento crea degli squilibri di umidità nel legno sottoposto al trattamento, ed abbiamo visto che le variazioni di umidità del legno portano a dei movimenti delle fibre, i quali innescano delle tensioni che possono deformare i pannelli. Va ricordato infatti che un pannello placcato con del tranciato (necessariamente sulle due facce, per evitare differenze di tensione) o un tamburato, che viene tolto dalla pressa dopo un incollaggio a caldo, deve essere tenuto in verticale, durante il raffreddamento, con le due facce esposte all’aria in maniera identica; in caso contrario, la diversa evaporazione dell’acqua contenuta nella colla usata per l’incollaggio, innescherà sicuramente dei ritiri diversi sui due lati, tali da incurvare il pannello. 



Se dobbiamo, per esempio, incollare un tamburato con dei profili esterni in legno, senza fori di sfiato (indispensabili nelle pressate a caldo, per far uscire il vapore che si crea all’interno), perché tutti i bordi sono a vista, allora dobbiamo usare la pressa senza attivare il riscaldamento ed usare della colla vinilica rapida, per garantire un tempo di pressatura abbastanza breve.
Oltre alle presse con i piani pari, ne esistono di quelle che possono placcare degli elementi curvi e si chiamano presse a tappeto o a membrana. Esse sfruttano l’elasticità di un foglio di caucciù, che ha la possibilità di estendersi 7 volte la dimensione originale, e funzionano per depressione.
Il piano inferiore è microforato o microcanalizzato e, dopo aver posizionato l’oggetto da comprimere, lo si copre con un telaio che porta il telo di caucciù; a questo punto si mette in funzione l’impianto di depressione che fa il vuoto, costringendo il foglio elastico ad avvolgersi attorno a tutto quello che trova sul piano sottostante.





Poiché questo avviene con una forza notevole, otteniamo lo stesso effetto di una pressa, che quindi fa aderire, per esempio, un’impiallacciatura al pannello sagomato, oppure si possono produrre elementi curvi costituiti da vari fogli sottili di compensato o MDF, ottenendo così un multistrati curvo.
Per quest’ultima operazione è necessario utilizzare una sagoma in legno su cui si appoggiano i vari fogli, già cosparsi di colla, poi si procede come al solito; in molti casi si interviene anche col calore per velocizzare l’incollaggio. Quando la colla è polimerizzata, che dipende da diversi fattori, si apre la pressa alzando il telo e si toglie il multistrati sagomato; la sagoma è pronta per un altro incollaggio. 






giovedì 19 dicembre 2013

LA MORTASATRICE E LA BEDANATRICE




La mortasatrice, o cavatrice, è una macchina nata per fare diverse lavorazioni, per esempio delle asole nel legno, tecnicamente denominate mortase, che devono ospitare i tenoni, o gamboni, che sono gli innesti dei traversi dei telai.
I tenoni vengono costruiti ricavandoli dal traverso mediante fresatura del pieno o semplicemente lavorandoli con la sega circolare, tenendo il righetto in verticale, per ottenere l’assottigliamento dello stesso ed anche la minor altezza, se si vuole che la giunzione sia perfettamente a scomparsa.



Questa macchina può sostituire una normale foratrice, per gli accoppiamenti fatti con le spine, o cavicchi, che in falegnameria sono piuttosto frequenti.
Ma lo sfruttamento maggiore di questa attrezzatura lo si ha quando dobbiamo incassare delle cerniere invisibili, o a scomparsa totale, oppure delle serrature da infilare come quelle delle porte interne degli appartamenti. Naturalmente le punte a
disposizione sono di diametro diverso ed hanno una forma piuttosto differente dalle punte tradizionali da trapano, in quanto non presentano l’elicoidale abituale ma, dovendo operare anche come frese, si presentano con i taglienti dritti, paralleli all’asse della punta stessa. 



L’attacco per l’inserimento nel mandrino rimane cilindrico, generalmente con diametro di 13 o di 16 mm.
La macchina lavora facendo ruotare un mandrino di forma un po’ insolita, perché ha soltanto due griffe per stringere le punte, anziché le solite tre, che si comandano con una chiave a brugola.
Il pezzo da lavorare viene bloccato su un piano che si muove lungo le tre direzioni ortogonali; prima di tutto si definisce la posizione verticale, che darà la posizione in cui lavorerà la punta inserita nel mandrino, che non è spostabile. Il piano viene poi spostato manovrando due leve che muovono il pezzo verso il mandrino, quindi decidendo quanto fare affondare la punta nel legno, e lo spostamento laterale per effettuare una fresatura, che avrà sempre le estremità arrotondate, visto il tipo di utensile usato.
Le due leve possono essere manovrate singolarmente oppure in maniera combinata.





Una macchina simile come utilizzazione è la bedanatrice che lavora con un utensile oscillante, e non rotante, affilatissimo e a sezione quadrata o rettangolare.
Con questa si ottengono delle mortase a sezione rettangolare, che permette di non impiegare del tempo per arrotondare le estremità dei tenoni, cosa invece obbligatoria se si usa una cavatrice tradizionale. 




Ne esiste anche un tipo che usa un utensile a sezione quadrata, ma cavo all’interno, per poter ospitare una punta elicoidale che affonda nel legno, preparando l’ingresso 


dell’involucro squadrato e che quindi produce fori quadrati o rettangolari, se usata più volte in sequenza. 

A questo gruppo di macchine appartiene anche la cavatrice a catena, usata prevalentemente per preparare la sede delle serrature nelle porte interne; lavora con una catena simile a quella delle motoseghe e viene fatta affondare verticalmente dentro i pannelli delle porte e spostata lateralmente assieme a due frese che preparano la sede della mostrina della serratura, nota come cartella.
Dalla colonna di sostegno della testa della cavatrice, escono anche due punte che forano la porta in corrispondenza della maniglia e della chiave che manovreranno la serratura, una volta che sarà infilata.




martedì 3 dicembre 2013

LA TOUPIE




Questa macchina, nata anche lei alla fine del 1800, è stata progettata per creare delle profilature, tipo quelle delle cornici, che una volta venivano eseguite a mano con dei pialletti particolari che montavano dei ferri sagomati.
Oggi si riesce ad ottenere lo stesso risultato utilizzando una toupie, che è praticamente una fresatrice e, per fare il lavoro che le viene richiesto, monta degli utensili chiamati frese.
La fresa, quando nacque la macchina, veniva ottenuta con un cilindro dotato di due fessure verticali contrapposte, in cui venivano bloccate delle placchette di acciaio sagomato (chiamate coltelli) sporgenti all’esterno in modo che, ruotando velocemente, asportassero una porzione di legno da un elemento squadrato, dandogli il profilo desiderato. 


Queste teste portacoltelli esistono anche oggi e funzionano con il medesimo concetto e sono corredate da una grande quantità di profili standard diversi, ma si possono anche fare in proprio, con la sagoma che necessita.
Ci si è molto preoccupati di migliorarne la sicurezza, in ossequio alle attuali norme antinfortunistiche, visto che una volta capitava che, ogni tanto, per effetto della forza centrifuga si sganciasse uno dei coltelli (che erano solitamente due) e venisse proiettato all’esterno, con grave rischio dell’operatore.
La macchina è costituita da un basamento con piano fisso ed è dotata di un albero verticale, che può avere diversi diametri, in cui vengono infilate e bloccate, con un bullone in testa, le varie frese.




Inizialmente l’albero rimaneva sempre perpendicolare al piano; oggi le macchine più avanzate dispongono di un albero inclinabile fino a 45° ed hanno diverse velocità di rotazione. Queste vanno scelte in funzione del diametro della fresa da utilizzare: una fresa di diametro contenuto, per esempio 100 mm., deve ruotare ad una velocità doppia di una analoga, ma di diametro 200 mm., per poter mantenere la stessa velocità tangenziale di lavoro, che generalmente oscilla tra i 50 e i 70 metri al secondo per utensili al Widia. 


Questo valore però può cambiare in funzione del numero dei taglienti della fresa, visto che non ce ne sono solo a due taglienti, ma ne esistono anche a 3, 4, 6, 8 e anche oltre; maggiore è il numero di taglienti è minore è la singola asportazione di truciolo, questo vuol dire che più coltelli abbiamo nella fresa e più viene rifinito il lavoro che dobbiamo compiere.
Abbiamo parlato solo di teste portacoltelli, dove una volta i coltelli erano in acciaio ed oggi vengono eseguiti con acciai speciali da utensili e, che nelle frese più tecnologiche, sono in Widia integrale, a volte da affilare, a volte costituito da placchette sottili del tipo usa e getta; non dobbiamo dimenticare però che molte frese sono costituite da un corpo in acciaio sagomato su cui vengono saldate le placche di Widia, che quindi vanno affilate senza possibilità di smontarle, come invece avviene per i coltelli a fissaggio meccanico. 



Le macchine attuali hanno anche la possibilità di invertire il senso di rotazione dell’albero e questo permette di lavorare con la stessa fresa una volta in posizione normale e una volta in posizione rovesciata, invertendo il senso di rotazione, per ottenere un profilo simmetrico.
Effettuando questa operazione riusciamo a fare lavorare sempre la fresa con i taglienti rivolti verso il legno; l’unica cosa che dobbiamo cambiare è la posizione dell’operatore e conseguentemente la direzione dell’alimentazione del pezzo da fresare.
La toupie ha, come la sega circolare, una guida parallela mobile, però in questo caso è divisa in due parti, visto che al centro deve sporgere la fresa per poter fare il suo lavoro; la parallela ha le due metà spostabili lateralmente per adattarsi alla dimensione della fresa in azione ed è collegata ad una struttura scatolata, chiamata cuffia, dotata di appendici adeguate per essere fissata al piano ed ospita la bocca di uscita per l’aspirazione che, in questa macchina è importante perché le frese producono molto truciolo.
Esiste un altro modo di lavorare con la toupie: anziché fresare dei pezzi lineari, si possono lavorare dei pezzi curvi, per esempio la parte superiore di una finestra ad arco.
Per poter affrontare questa operazione bisogna togliere la cuffia con la parallela, che ci è servita per fresare i montanti e, per procedere alla lavorazione della parte curva (supponendo di avere preparato il grezzo, incollando diverse parti ad arco per ottenere lo sviluppo che ci serve), dobbiamo fare due cose: prepararci una sagoma dell’arco, di almeno un centimetro di spessore, che applicheremo con qualche chiodino, che poi stuccheremo, all’arco segmentato che abbiamo preparato.
La seconda cosa è montare, subito sopra la fresa, distanziandolo con una rondella adeguata, un cuscinetto rivestito in metallo con una copertura dello stesso diametro della fresa. Si fa partire la macchina poi, con molta cautela perché mancano tutte le protezioni, si avvicina un’estremità della sagoma al cuscinetto, mentre sotto la fresa farà il suo lavoro, seguendo la curvatura della sagoma che facciamo scorrere fino all’altra estremità.
Avremo ottenuto così un arco a profilo sagomato che si accoppierà perfettamente ai due montanti della finestra preparati precedentemente, usando la parallela.
Un accessorio molto importante di questa macchina è l’avanzamento meccanico, costituito da un carrello sospeso, dotato di ruote gommate, che fa avanzare i pezzi a velocità costante, garantendo il massimo livello di finitura a tutti i pezzi, senza avvicinare le mani alla fresa, evitando quindi i rischi di incidenti con quella che ritengo la macchina più pericolosa di tutta la falegnameria.
Quando non si usa l’avanzamento meccanico, ci sono degli altri elementi, di forma varia, che tengono premuti verso il basso e verso la parallela i pezzi da lavorare, a cui si aggiunge anche la paratia trasparente frontale che si può montare per tenere sotto controllo il pezzo in lavorazione, senza che le mani possano avvicinarsi alla fresa.
A volte può capitare di dover produrre delle cornici o dei profilati che sono troppo grandi per poter essere realizzati con una fresa unica, oppure non si deve fare un quantitativo tale da giustificare la costruzione di una fresa dedicata a quel profilo. In questo caso si studia come suddividere la cornice in più parti, che vengono lavorate separatamente, poi incollate assemblandole con delle anime. 



domenica 24 novembre 2013

LA PIALLA A FILO E SPESSORE




La pialla a filo è stata inventata per spianare le tavole di legno nella faccia inferiore, visto che non esistono tavole perfettamente piane e lisce dopo il procedimento di essicazione, che porta al ritiro del legno, con conseguente deformazione delle tavole stesse, come abbiamo visto negli articoli precedenti.


La macchina è costituita da due piani separati, di cui quello dal lato dell’operatore (piano di alimentazione) spostabile verso il basso; tra i due piani ruota un cilindro su cui sono fissati dei coltelli lunghi quanto il cilindro stesso e che quindi lavorano per tutta la larghezza del piano. Questi coltelli sono montati in maniera da poter essere tolti per la riaffilatura e sono sistemati in modo da lavorare a filo col piano fisso di uscita della macchina.
In funzione di quanto abbassiamo il piano di alimentazione, possiamo variare la quantità di materiale asportato dalla tavola per ogni passata. Ovviamente il dislivello tra i due piani va calcolato in funzione della durezza del legno: se è tenero si può asportare di più, se è duro ovviamente di meno.
Il piano di alimentazione viene regolato spostandolo su una guida inclinata, per poter controllare meglio la sua discesa e, in molti casi, l’abbassamento lo si può leggere sul fianco dello scivolo.
In funzione di quanto è arcuata o imbarcata la tavola da lavorare, saranno necessarie una o più passate per raggiungere lo scopo, cioè ottenere la faccia inferiore della tavola perfettamente liscia e piana.
Sulla destra dei piani della pialla esiste una sponda parallela, in squadro con i piani, contro cui si appoggia la faccia della tavola appena spianata, per fare lo stesso trattamento anche su uno dei bordi. Questa operazione si compie per poter tagliare la tavola con la sega circolare, avendo un piano perfettamente pari, che combacia completamente con il piano della sega o con il carro, ed un bordo rettilineo per poterlo fare scorrere senza sobbalzi lungo la parallela della sega circolare.
Con questo sistema noi possiamo semplicemente refilare la tavola, per darle due bordi paralleli, oppure tagliare la tavola in tanti righetti, appoggiandosi di volta in volta col taglio appena fatto contro la parallela.
Se abbiamo semplicemente refilato la tavola, perché ci serve intera, abbiamo solo tre lati in squadro e dobbiamo provvedere a squadrare anche il quarto, che è la faccia superiore della tavola, dandole quindi uno spessore costante.
Per fare questa operazione dobbiamo usare un’altra macchina che si chiama pialla a spessore; questa lavora con un cilindro dotato di coltelli, analogo a quello della pialla a filo, ma montato nella parte superiore della macchina e collegato con una trasmissione a dei rulli di avanzamento meccanico, mentre nella pialla a filo la tavola viene spinta manualmente dall’operatore.  




In questo caso il piano è uno solo e si sposta in alto e in basso in funzione dello spessore che dobbiamo realizzare. A questo punto noi dobbiamo appoggiare la tavola passata alla pialla a filo, tenendola con la faccia spianata sul piano mobile, che viene alzato fino a che il cilindro con i coltelli non comincia a lavorare, alzandolo ad ogni passata in maniera adeguata, finchè non si raggiunge lo spessore desiderato.
Alla fine di questa operazione ci rimane soltanto da rifinire il bordo che è stato solo segato, e che porterà i segni della lavorazione alla sega; quindi, mettendo la tavola di taglio, appoggiata sul bordo già piallato, facciamo passare la tavola per piallarla anche sul bordo superiore segato, fino alla misura scelta.
Questo è il sistema usato nelle aziende che possono disporre di macchine separate; esistono però sul mercato delle macchine destinate ai locali con problemi di spazio (chiamate bicombinate), che permettono di fare entrambe le operazioni, ma utilizzando la stessa macchina:




Fino ad ora abbiamo parlato di pialle con i coltelli dritti, che possono essere 2, 4 o 6 in funzione della raffinatezza della lavorazione che vogliamo ottenere. In questi ultimi anni la tecnologia ci ha messo a disposizione delle soluzioni più sofisticate che, oltre alla perfezione di lavorazione, hanno ottenuto anche un abbassamento della rumorosità, che nelle pialle è abbastanza elevata. 







sabato 16 novembre 2013

LA SEGA CIRCOLARE




Questo tipo di sega è stato inventato nella seconda metà del XVIII secolo; rispetto alla sega a nastro, questa macchina si differenzia perché usa una lama dentata di forma circolare.
Le prime lame che sono state costruite erano in semplice acciaio e soltanto prima della Seconda Guerra Mondiale furono fatti i primi esperimenti per applicare dei riporti in Widia, che nel frattempo era stato inventato dalla Krupp nel 1926.
Ma cos’è il Widia? Sostanzialmente è carburo di tungsteno ed è durissimo, si ottiene per sinterizzazione, cioè utilizzando delle finissime polveri che vengono compresse ad altissime pressioni e ad alta temperatura; le placchette che si ottengono sono già conformate per l’uso a cui sono destinate, che non è solo per le lame o le frese per la falegnameria, ma anche per gli utensili destinati alla lavorazione meccanica.
Nel caso specifico delle seghe circolari, le placchette riportate vengono saldate al disco con una lega a base di rame e argento chiamata Castolin (veramente questo sarebbe il nome della ditta produttrice, ma ormai il prodotto è conosciuto con questo nome), ma ci sono molti casi in cui le placchette vengono bloccate su alcuni supporti studiati appositamente con sistemi meccanici, o con semplici viti.
Il grande vantaggio che si è avuto con l’introduzione del Widia (il cui nome deriva dal tedesco Wie Diamant, che significa: come diamante, di cui sono state prese le prime lettere per formare il nome) è stata la grande durata dell’affilatura, che permette di usare gli utensili sei/sette volte più a lungo di quelli in acciaio da utensili.
C’è una piccola annotazione da fare: il Tungsteno è l’unico elemento chimico che ha due nomi, l’altro è Wolframio (che è il nome con cui è stato battezzato ufficialmente) ed il simbolo chimico è W, mentre quello del carbonio è C; pertanto il carburo di tungsteno, che è carburo di wolframio, ha scandalosamente la sigla: WC.
La sigla commerciale, che è quella sicuramente più usata è HM e deriva dal tedesco: Hart Metall, cioè metallo duro.
Il grande sviluppo degli utensili al Widia si è avuta nel dopoguerra, quando sono comparsi sul mercato i primi pannelli di truciolare, che hanno un certo quantitativo di colla termoindurente al proprio interno, e questa è notevolmente abrasiva; questo comportava la sostituzione frequente degli utensili in acciaio, con notevole perdita di tempo e di costi per la riaffilatura, per cui quando sono comparsi sul mercato gli utensili al Widia, sono stati accolti come una benedizione, a dispetto del costo superiore.
Naturalmente anche questi utensili vanno riaffilati e per l’affilatura si devono usare delle mole diamantate, al posto di quelle normali al corindone o al carburo di silicio usate per l’acciaio da utensili.
Tornando alle lame delle seghe circolari, che ormai vengono montate universalmente al posto di quelle in acciaio, anche per la precisione di taglio, abbiamo le placchette riportate che sporgono lateralmente dal corpo lama, come nel caso dei nastri che sono citati nell’articolo precedente; questo comporta in automatico l’eliminazione della stradatura, per cui la lama è complanare, con l’esclusione delle placchette in Widia.
Nella sega circolare la lama può essere comandata in altezza e può essere inclinata fino a raggiungere i 45°; la possibilità di alzarla a piacere ci permette, per esempio, di fare delle semplici incisioni nel pezzo che stiamo lavorando, cosa impossibile con la sega a nastro, che ha solo la possibilità di fare dei tagli completi.
Nelle macchine professionali, prima della lama principale, che ha i denti rivolti verso l’operatore, ce n’è un’altra più piccola chiamata incisore che serve ad evitare che la lama, durante la normale lavorazione, finisca per sbrecciare il legno (tagliato trasversalmente) o i pannelli di nobilitato o placcati in laminato. 


Per ottenere questo risultato l’incisore viene fatto ruotare in senso contrario alla lama principale, per evitare che sbrecci il pannello in uscita, ed ha i denti al Widia a forma di trapezio isoscele, rivolti verso la lama; questo incisore viene calibrato in altezza fino a che i due lati inclinati del dente non producono una piccola incisione nel pannello, che risulti appena un po’ più larga del taglio prodotto dalla lama principale.






In questo modo la lama non viene a contatto con la faccia inferiore del pezzo e questo evita le sbrecciature, mentre il passaggio dell’incisore non fa nessun danno perché non affonda nel pezzo ma si limita ad un’incisione di pochi millimetri, quindi con un effetto di taglio tangenziale, che non strappa il materiale. 


La macchina è dotata di una sponda di appoggio, spostabile lateralmente, sul lato destro, chiamata parallela, che serve appunto per effettuare dei tagli paralleli al senso di avanzamento del pezzo. Di fianco alla lama scorre il carro, che è dotato di un’asta perpendicolare che si chiama bandiera, orientabile per eseguire tagli in squadro e fuori squadro. Nel filmato si nota molto bene quale è l’uso che si fa di queste attrezzature.
Le seghe circolari hanno dimensioni diverse, in funzione dei requisiti che vengono richiesti: lunghezza del carro, larghezza della bandiera, larghezza di taglio in appoggio contro la parallela e diametro della lama; quest’ultimo è quello che permette di tagliare uno spessore di legno più o meno alto.



lunedì 4 novembre 2013

LE MACCHINE FISSE DELLA FALEGNAMERIA




Dall’uso esclusivamente di strumenti manuali ad oggi, la tecnica di produzione della falegnameria ha subito diverse modifiche, con l’invenzione di macchine operatrici che ne hanno notevolmente cambiato l’aspetto; dalla bottega oscura in cui lavoravano diversi operai con attrezzi a volte autocostruiti ed imperfetti, oggi si opera all’interno di capannoni luminosi e dotati di tutte le macchine indispensabili per esercitare la professione del falegname con velocità e precisione.
Bisogna però aggiungere che una volta, se capitava un incidente nel maneggiare gli strumenti dell’epoca, i danni non erano mai molto gravi; con l’introduzione di macchinari che moltiplicano la potenza di lavoro e la rapidità, senza preoccuparsi dell’incolumità degli operatori, soprattutto agli inizi, gli incidenti che sono capitati sono stati spesso gravi.
Oggi, con le normative in vigore, i danni sono stati limitati per effetto delle protezioni obbligatorie che sono state introdotte; ma agli inizi l’inesperienza e la disattenzione hanno portato a diverse mutilazioni.
Un’altra introduzione che permette di limitare moltissimo gli incidenti è stata quella dell’elettronica, che sostanzialmente impedisce il contatto tra l’operaio ed il pezzo il lavorazione, facendo programmare il computer all’interno della macchina dal tecnico e l’operaio si limita a piazzare i pezzi da lavorare poi, quando fa partire l’apparecchiatura, lui è fuori portata dalle parti in movimento.
Vediamo però quali sono le macchine tradizionali in uso nelle falegnamerie più comuni.


LA  SEGA  A  NASTRO

Questa è una delle prime macchine realizzate nel periodo di industrializzazione delle falegnamerie, alla fine del XIX secolo. E’ costituita da due volani, di cui quello inferiore motorizzato e quello superiore in folle, sui quali corre un nastro di acciaio seghettato, con i denti più grandi o più piccoli in funzione della minore o maggiore accuratezza del taglio che si vuole ottenere.
Però i nastri hanno tutti una particolarità: i denti non sono in piano con il corpo del nastro, ma leggermente piegati verso l’esterno, in sequenza alternata; questa disposizione si chiama allicciatura (detta anche ”stradatura”). 


Il motivo di questo posizionamento dei denti (che si trovano dal lato dell’operatore), è dovuto dalla necessità di far avanzare il pezzo in lavorazione senza che il corpo del nastro rischi di sfregare contro il legno; infatti i denti sistemati in fuori creano una “strada” più larga del corpo del nastro, in modo che questo non si surriscaldi per lo sfregamento, deformandosi.
Questo sistema deriva dalla medesima disposizione che i falegnami avevano, ed hanno anche ora, nelle loro seghe manuali, anch’esse “stradate” per alleviare la fatica durante l’utilizzo, derivante dall’attrito.
Ovviamente la sega a nastro, quando è nata, era abbastanza diversa da quelle che vengono prodotte oggi, soprattutto per le protezioni: i volani erano scoperti ed il nastro della sega era esposto per tutta la sua lunghezza, quindi con notevoli rischi di incidenti, che purtroppo sono accaduti.
Inoltre la macchina aveva il piano di lavoro fisso e non aveva la scanalatura nel senso della lavorazione; oggi il piano è inclinabile è c’è la scanalatura per fare scorrere le guide mobili che portano avanti i pezzi da lavorare lungo una linea retta.
Inoltre, in ossequio alle normative vigenti, i volani sono stati coperti ed il tratto di nastro scoperto è molto limitato, in quanto esiste un sistema telescopico per abbassare una copertura che lascia in vista solo la parte necessaria a far avanzare il pezzo, o poco più. 




I nastri sono costruiti in vari materiali (tanto che la sega a nastro viene usata anche in fonderia per tagliare le parti in eccedenza delle fusioni in lega di alluminio) e in varie larghezze; il motivo è che i nastri larghi vanno bene per fare i tagli dritti, mentre quelli stretti servono per segare degli oggetti che hanno un contorno con curve molto accentuate. L’ultima cosa da dire sulla sega a nastro è che il taglio che si effettua con questa macchina, usando il nastro di acciaio, non viene perfetto, ma risente della stradatura dei denti, che lasciano una traccia verticale nel pezzo segato; essendo il nastro in acciaio, senza riporti in Widia, è destinato a tagliare materiali legnosi, escludendo quindi pannelli in nobilitato o rivestiti in laminato, che vengono decisamente scheggiati e ne compromettono l’affilatura.
Ultimamente sono stati messi in commercio anche dei nastri con i denti riportati in Widia, che hanno pertanto il nastro piano, senza stradatura, che viene sostituita dalla presenza dei denti riportati, che sono leggermente sporgenti da entrambi i lati del nastro; l’affilatura dura molto di più, ma costano circa 6 volte di più.
Comunque sia i nastri, prima o poi, devono essere affilati; per questa operazione esiste una macchinetta che provvede sia all’affilatura, dente per dente, sia al controllo della stradatura del nastro, che deve essere mantenuta costante per poter tagliare nelle migliori condizioni.




martedì 29 ottobre 2013

FONDI E TINTURE




Parlando di vernici, non dobbiamo dimenticare i passaggi preliminari, soprattutto l’applicazione del fondo. Qualunque sia l’oggetto da verniciare è indispensabile preparare il legno con una o più mani di fondo, che ha due funzioni: la prima è quella di chiudere i pori del legno (salvo che non si voglia fare una verniciatura a poro aperto), la seconda è quella di creare un supporto fortemente aggrappato al legno, su cui spruzzare successivamente la vernice.
I fondi che si usano prevalentemente sono tre: il fondo poliuretanico che, nella versione trasparente è consigliato per i legni scuri; il fondo ad acqua che è invece consigliato per i legni chiari (quello poliuretanico tende ad inverdirli) e il fondo al poliestere, generalmente chiamato poliesterino, che è preferito quando la porosità del legno è elevata ed è necessario usare un fondo con un residuo secco molto elevato. 


All’applicazione del fondo segue una carteggiatura con carta vetrata di grana 240/280, per livellare tutte le imperfezioni e creare una superficie perfettamente liscia, in modo da mettere la vernice nelle condizioni per stendersi nel migliore dei modi, sia nel caso di vernice lucida o opaca.
Un’altra operazione che si consiglia di effettuare per non fare affiorare le macchie di tannino nei legni che ne sono ricchi (rovere, castagno e molti esotici) è quella di dare una mano di isolante, che blocca l’affioramento del tannino e che sarebbe consigliabile usare anche quando si lacca il Medium Density, visto che non sappiamo mai che legni sono stati usati per produrlo.
Questo trattamento è soprattutto utile nell’applicazione dei prodotti a solvente, che sono quelli che possono scatenare l’affioramento delle macchie.
Un’opportunità che ci offre la maggior parte dei legni chiari è quella di poter essere tinti con varie tonalità di colore. Una volta era un’operazione complicata perché bisognava utilizzare le bustine di anilina, che esistevano nella versione solubile in alcool (da dare a spruzzo) oppure solubile in acqua.
Queste ultime andavano preparate sciogliendole dentro un contenitore di acqua calda a cui era stata aggiunta una certa percentuale di ammoniaca, che favoriva l’apertura dei pori del legno per ottenere una migliore penetrazione del colore.
Il mercato offriva toni di colore come: ciliegio, mogano, noce chiaro, noce scuro, ebano e tutta una serie di colori che andavano dal rosso al verde eccetera.
Per ottenere la tinta voluta si preparava un determinato quantitativo delle varie tinte, che venivano poi mescolate in proporzioni opportune e che, a risultato ottenuto, venivano applicati con una normalissima spugna, facendo attenzione a passare dappertutto in un'unica volta. 



E’ importante fare il lavoro in un’unica passata perché, se lo si facesse in due volte, si finirebbe per sbavare il colore sulla prima passata quando si applica la seconda e questo determinerebbe una sgradevole sovrapposizione di colore, che sarebbe piuttosto difficile da eliminare senza rifare completamente il pezzo, dopo averlo sgrezzato con la carta vetrata.
Oggi esistono dei flaconi di tinta già preparati in diverse sfumature e ci sono sia a solvente (da dare a spruzzo e diluibili con l’acetone) che hanno un’evaporazione rapidissima e non alzano il pelo del legno, sia ad acqua pronti all’uso o da diluire se si vuole un tono più delicato, da applicare sempre con la spugna con la stessa metodologia dell’anilina. Queste tinture si possono applicare anche a pennello. 




Bisogna comunque ricordare che il colore del legno tinto che si otterrà quando sarà stata data anche la finitura trasparente, la vediamo nel momento in cui stendiamo la tinta, ed è ancora bagnata; infatti quando la tinta si asciuga si schiarisce, per riprendere però il colore originale quando si applicano fondo e vernice trasparenti.

domenica 20 ottobre 2013

LE VERNICI POLIESTERE (terza parte)




Un’altra categoria di vernici, ormai poco usata per via dei costi eccessivi, è quella delle vernici poliestere, che vengono usate per realizzare superfici perfettamente brillanti, tramite l’utilizzo di uno spazzone e di paste abrasive.
Queste vernici sono costituite da una base a cui va aggiunto un 2% di accelerante, un 2% di catalizzatore ed un 25/30% di acetone come solvente; non ha bisogno di una mano di fondo, come le altre vernici, ma viene applicata a spruzzo in diversi strati, fino al raggiungimento dello spessore adeguato.
Tra una mano e l’altra bisogna ovviamente lasciarla essiccare (da 2 a 6 ore) e, siccome ad essicazione avvenuta, ogni volta c’è un affioramento di paraffina, bisogna provvedere ad asportarla tramite carteggiatura con grana 240, per permettere l’applicazione della mano successiva (da 3 a 5 mani); infine si stende la mano di trasparente lucido.
L’ultima carteggiatura viene effettuata con una carta molto fine (grana 1000) in senso trasversale a quelle precedenti e al senso di lucidatura, che viene effettuata prima con dischi di sisal, accoppiati con una pasta abrasiva che toglie i graffi, poi con dischi di feltro impregnati con una specie di polish o di olio.
Questo tipo di verniciatura è caduto un po’ in disuso in quanto richiede una mano d’opera notevole ed ha quindi un costo che è due o tre volte quello delle vernici poliuretaniche dirette, ottenendo praticamente il medesimo effetto estetico; il vantaggio che ha il poliestere è che, se si fa un graffio in un pannello, si riesce generalmente a ripristinare, in quanto lo spessore della vernice permette di carteggiare fino a riprendere completamente il danno, per poi rilucidarlo.
Con le vernici poliuretaniche questa soluzione è praticamente improponibile perché lo strato di finitura è molto sottile ed i graffi si tolgono solo se hanno una profondità infinitesimale.


VERNICIATURA  A  PORO  APERTO

Questo tipo di trattamento è destinato ai pannelli costruiti con legni a poro molto evidente, per esempio: frassino, castagno, ma soprattutto rovere (e tutta la sua famiglia), se ci limitiamo a quelli nazionali.
Dopo aver carteggiato il legno, come al solito, si applica una mano di un fondo trasparente particolare, che ha un residuo secco molto basso; poi si effettua una carteggiatura molto leggera, con carta vetrata fine, poi si applica la finitura trasparente con il numero di gloss che si desidera, oppure si lacca. 


In questo modo la porosità originale del legno rimane visibile e la superficie non sarà perfettamente liscia, ma risulteranno evidenziati i pori del legno.
Un’alternativa a questo trattamento, ma che ne sfrutta la partenza, è la decapatura che si ottiene partendo da un pannello di legno a poro aperto, che ha già subito l’applicazione del fondo ed è stato carteggiato.
Sulla superficie così preparata, si stende una pasta (che può essere bianca o colorata) con uno straccio, assicurandosi di chiudere tutti i pori; dopo circa un’ora, ad essicazione avvenuta, si carteggia il pannello facendo in modo che la pasta rimanga solo dentro i pori.
A questo punto il pannello è pronto per la verniciatura finale; data la notevole quantità di colori delle paste, si possono ottenere effetti molto particolari, dando in molti casi un aspetto “antichizzato” al legno.