domenica 28 dicembre 2014

I TRATTAMENTI PROTETTIVI DELLE VITI




Poiché le viti vengono prodotte in acciaio, sappiamo tutti che il peggior nemico di questa lega è l’ossidazione, che colpisce quasi tutti i metalli e le loro leghe; nel caso dell’acciaio si chiama ruggine rossa.
Per contrastare questo processo, le viti non vengono lasciate al naturale, ma subiscono dei trattamenti protettivi per farle durare più a lungo possibile; inoltre questi trattamenti non hanno una motivazione solo tecnica, ma anche estetica in quanto ne modificano l’aspetto e questo può essere un dato interessante, in funzione del colore del materiale in cui vengono inserite.
La pagina del catalogo MUSTAD che vi propongo vi informa sulle varie protezioni che l’azienda usa per i suoi prodotti: 

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Vorrei spiegare perché le prove vengono effettuate nelle Camere di Nebbia Salina; siamo tutti a conoscenza del fatto che esistano fenomeni ambientali che portano a corrosioni più o meno accentuate. Nel nostro caso valutiamo due possibilità: che i materiali vengano testati all’aria aperta in una città dell’entroterra, per esempio Bologna, ed in una che invece è sul mare, per esempio Rimini.
Se prendiamo un tubo di acciaio e lo mettiamo sul davanzale di una casa a Bologna, lasciandolo attaccare dagli agenti atmosferici, notiamo che col passare del tempo compaiono delle macchie di ruggine che, piano piano, ricoprono tutto il tubo.
Se lo stesso esperimento lo facciamo a Rimini, l’effetto è molto più rapido ed il motivo è che l’ambiente in cui si viene a trovare l’oggetto è diverso e la causa è l’aria salmastra. In effetti la presenza del mare porta ad una variazione dell’aria dovuta al continuo movimento delle onde, da cui si sprigionano vapori che contengono composti del cloro, soprattutto cloruro di sodio che è il normalissimo sale da cucina, che estraiamo normalmente dall’acqua di mare.
La presenza di questi cloruri nell’aria rende l’ambiente più aggressivo, soprattutto per i metalli e le loro leghe, e l’acciaio rientra in questa categoria, quindi la corrosione avviene con maggiore rapidità.
Per poter valutare la maggiore o minore efficacia di un trattamento protettivo, si usa la Camera di Nebbia Salina che è un’attrezzatura da laboratorio in cui si effettuano i test di resistenza, in un ambiente con una concentrazione di cloruro di sodio del 5% ad una temperatura di 35°C, come richiesto dalla normativa ISO 9227.
I valori che potete leggere di fianco alle varie viti sono espressi in ore di resistenza dentro alle suddette camere, prima che insorga la corrosione; questi valori però non si possono trasformare in dati pratici legati alle ore di permanenza all’aria aperta, che tante discussioni hanno provocato in questa materia.
Purtroppo bisogna accettare questi dati come valutazione di rapporto, nel senso che, se una vite ha ricevuto un trattamento che ha resistito 1000 ore in camera di nebbia salina, significa che ha una resistenza alla corrosione doppia della vite il cui trattamento ha contrastato la corrosione per 500 ore.
Sentendo le opinioni degli esperti di settore, il valore dato ai vari trattamenti, seguendo la normativa ISO 9227, serve appunto a creare un rapporto tra una protezione ed un’altra, cercando di unificare il metodo di valutazione della resistenza alla corrosione.
Nella mia ricerca sulla possibilità di trasformazione delle ore in camera di nebbia salina in periodi di resistenza all’aria aperta, mi sono imbattuto in valutazioni molto discordanti; in un articolo di una rivista in lingua inglese ho trovato un autore che paragonava la resistenza di 1000 ore in camera ad un periodo di 5 anni all’aperto.
C’è stato però anche chi mi ha confidato che una protezione che resiste 100 ore in camera equivale ad un anno in ambiente esterno, che è un valore piuttosto diverso.
Il motivo di questa impossibilità di trasformazione dei tempi di resistenza alla corrosione è dato dall’impossibilità di controllare la situazione nei vari luoghi di permanenza dei manufatti trattati, che sono influenzati dall’umidità, dalla temperatura ed anche dal tipo di inquinamento dovuto ad altri agenti che si trovano nelle città in cui, tra il riscaldamento delle abitazioni e la circolazione degli autoveicoli, si genera un ambiente ricco di composti dell’azoto e dello zolfo, che hanno il loro effetto corrosivo.

Comunque possiamo concludere ipotizzando che una vite con un determinato trattamento protettivo avrà una corrosione, in ambiente marino, superiore a quello di un ambiente dell’entroterra che, a sua volta, sarà superiore a quello di una zona di alta montagna, dove l’aria è sicuramente meno inquinata.

giovedì 18 dicembre 2014

I VARI TIPI DI VITI




Adesso che abbiamo visto le caratteristiche delle varie viti, diamo un’occhiata alle varie dimensioni che vengono prodotte dalla MUSTAD.
Il primo tipo che prendiamo in considerazione è la vite a testa svasata piana (che viene indicata come TSP o TPS), che è il modello che si usa quando la testa non deve sporgere dall’oggetto in cui la infiliamo, sia esso legno oppure metallo da fissare su un pannello.
Ovviamente l’impronta è di tipo Pozidriv, e come si vede dalla tabella, sono indicati i modelli degli inserti da usare, in funzione della testa: PZ 1 per i diametri da 2,5 e 3 mm., PZ 2 per i diametri 3,5 – 4 – 4,5 – 5 mm. e PZ 3 per il diametro 6 mm.
La pagina che segue si riferisce alle viti zincate bianche, con permanenza in camera di nebbia salina per 100 ore; incrociando i diametri con le varie lunghezze, si evidenzia il costo attuale di un lotto di 100 viti di quel tipo. 

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Bisogna ricordare che l’indicazione di una vite va fatta specificando prima il diametro e poi la lunghezza, quindi si scriverà: 3,5 x 30 oppure 4 x 50 e non viceversa.
Naturalmente non c’è solo questo tipo di finitura, ma esiste anche una versione bronzata, una zincata gialla, una ottonata lucida ed una Neroplus.

Una vite simile è quella a testa svasata piana con filetto parziale; questo modello è nato per ottenere un accoppiamento perfettamente combaciante tra due elementi in legno, in quanto la parte del gambo non filettata permette di serrare in maniera perfettamente combaciante i due pezzi, dal momento che quello superiore non ha il filetto che lo impegni, che gli impedirebbe di scorrere lungo il gambo.
Questo modello ha inoltre la testa autosvasante, che permette di avvitare la vite facendo affondare la testa senza preoccuparsi di fare una adeguata svasatura precedentemente (soprattutto nei legni teneri). 

 
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Sempre con lo stesso tipo di gambo esiste anche il modello con la cava TORX che, come si vede dalla tabella, è utilizzata soprattutto per le viti di dimensioni generose e che quindi richiedono uno sforzo notevole per essere avvitate, da cui l’uso della cava esalobata per esercitare la forza sulla vite in senso tangenziale; la testa è inoltre fornita di nervature per renderla autosvasante.
La finitura di queste viti è esclusivamente nella versione Chromiting e, come si nota dalla tabella delle dimensioni disponibili, il costo di questo trattamento è leggermente superiore alla normale zincatura bianca. 

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lunedì 8 dicembre 2014

LA CARBONITRURAZIONE E LA TEMPRA DELLE VITI




Come ho spiegato nel primo articolo, le viti che sono state usate fino a qualche decennio fa erano costruite in acciaio non temprato oppure in ottone; quelle che sono state prodotte in seguito hanno subito dei miglioramenti tecnici che hanno permesso di realizzare delle viti tecnologicamente molto evolute a cui si è notevolmente indurita la superficie esterna, effettuando un processo metallurgico chiamato carbonitrurazione.
Questo trattamento si esegue a 800°C circa per 3 o 4 ore, in ambienti che contengono sostanze in grado di cedere azoto e carbonio, che si combinano con l’acciaio, formando nitruri e carburi di ferro che sono estremamente duri, e questo procedimento si attua solo sulla superficie delle viti per uno spessore di pochi decimi di millimetro.
E’ molto importante che l’indurimento sia legato solo alla superficie, in quanto il filetto risulta molto tagliente e non deformabile durante l’avvitamento, anche su legni molto duri.
Però questo trattamento si porta dietro anche una certa fragilità, che non deve intaccare tutto il corpo della vite, la cui parte centrale (generalmente chiamata “anima”) mantiene la sua tenacità originale, che le permette di reagire positivamente agli urti ed agli sforzi torsionali a cui viene sottoposta.
In seguito le viti vengono temprate, raffreddandole bruscamente, ottenendo un miglioramento della tenacità e della resistenza dell’acciaio. 

 
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Una volta effettuati questi trattamenti, la MUSTAD provvede ad una lubrificazione speciale, che non ha niente a che vedere con il bagno d’olio che veniva effettuato una volta sulle viti, che erano grezze, e che serviva a preservarle dalla ruggine.
Questo trattamento, come potete leggere nella pagina pubblicata sopra, ha l’unico scopo di diminuire lo sforzo mentre si fa penetrare la vite nel legno, velocizzando l’operazione se è compiuta con un avvitatore, e diminuendo la fatica se la vite viene avvitata manualmente.
Naturalmente le viti, in funzione dello scopo che hanno, vengono costruite con teste di forma diversa: se devono andare a filo con la superficie, si adotta la vite a testa piana svasata; se devono fissare un elemento piatto metallico è molto utile la vite a testa cilindrica (meglio se accoppiata ad una rondella, che ne distribuisce la forza di trazione); se invece dobbiamo fissare un elemento, e non abbiamo la certezza che la vite scenda perfettamente perpendicolare, è più indicata la vite con la testa svasata a calotta (comunemente nota come “testa a goccia di sego”), in quanto, essendo bombata, maschera notevolmente un inserimento non perfettamente ortogonale, cosa invece indispensabile se si usa una vite svasata piana.
Esistono poi le viti con testa ridotta (nel diametro) per fissare elementi sottili, sia in legno che in metallo e quelle con la testa a fungo con collare, che evitano l’utilizzo della rondella, per distribuire meglio la spinta della testa. 

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Come ultima pagina del catalogo MUSTAD, per questo articolo, vi propongo quella che potrei definire la pagina riassuntiva delle caratteristiche tecniche delle viti da legno. 

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sabato 29 novembre 2014

LE VITI DA LEGNO



I prossimi articoli sono dedicati ad una serie di elementi indispensabili per il fissaggio dei vari elementi di legno fra loro, oppure per il collegamento dei diversi componenti della ferramenta al legno o ai suoi derivati: le viti da legno.
Facciamo un po’ di storia: le viti metalliche fecero la loro apparizione in Europa nel XV secolo, ma divennero di uso comune solo nel XVIII secolo, quando si trovò il sistema per produrle in grandi quantitativi; infatti nel 1797 l’ingegnere britannico Henry Maudslay brevettò un tornio per la loro produzione e, l’anno successivo, un dispositivo simile fu brevettato negli Stati Uniti da David Wilkinson.
Le viti da legno avevano inizialmente una forma conica; erano di acciaio dolce, non temprato, ed avevano sulla la testa un semplice intaglio per poter procedere al loro inserimento nel legno.
Il fatto che non fossero temprate rendeva obbligatoria una certa cautela nell’avvitamento, per non danneggiare l’intaglio, e molto spesso era necessario un preforo per guidarle opportunamente ed evitare che il legno si spaccasse, per effetto della conicità, che portava ad un graduale aumento del diametro, durante l’inserimento, sia che fossero di acciaio oppure di ottone.
Per molto tempo la forma delle viti è rimasta praticamente la stessa, nelle varie versioni: a testa piana svasata, a goccia di sego, o a testa cilindrica; il grande cambiamento lo si è avuto negli anni ’80 e si sono sviluppate parallelamente agli avvitatori elettrici, che erano la grande innovazione del momento, visto che permettevano di velocizzare moltissimo i tempi di inserimento delle viti.
Però la forma delle viti fu modificata, da coniche diventarono cilindriche con l’anima più sottile ed il filetto elicoidale molto più tagliente e spaziato; oggi le viti Panelvit sono prodotte in acciaio al carbonio, trattate termicamente ed infine lubrificate per ridurre lo sforzo durante l’avvitamento. Inoltre il modo di produrle è cambiato e non si ottengono più per tornitura, ma per rullatura che permette di ottenere il medesimo risultato, ma senza asportazione di truciolo. 

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Però le viti con l’intaglio semplice non erano adatte all’uso degli avvitatori perché l’inserto a taglio montato sugli avvitatori non riusciva a rimanere centrato sulla vite, durante la penetrazione nel legno, ma tendeva sempre ad uscirne, con il rischio di danneggiare il pezzo in lavorazione.
Ci voleva qualcosa di innovativo e l’americano J.P.Thompson trovò la soluzione, inventando la vite con la testa a croce, di cui vendette il brevetto a Henry Phillips, fondatore della Phillips Screw Company. In un primo tempo però Phillips incontrò delle difficoltà a trovare un’officina in grado di intagliare il nuovo tipo di testa, finchè non contattò la American Screw Company che credette nell’idea e fu disponibile ad investire in questo nuovo tipo di intaglio, che poi ebbe un grande successo.
Il grande vantaggio di questa innovazione fu appunto di creare un incavo che permetteva di mantenere centrato l’inserto montato sull’avvitatore, permettendo di premere sulla vite durante l’avvitamento per farla affondare facilmente e senza correre il rischio che l’utensile sfuggisse dalla vite, provocando dei danni.
Questo tipo di intaglio si diffuse a molti tipi di viti, sia a quelle destinate ai lavori di falegnameria, sia alle viti utilizzate nel settore della carpenteria metallica, quindi alle viti a passo metrico (oppure in pollici), alle viti autofilettanti ed alle future autoperforanti.
Poi, negli anni ’90, ci fu l’introduzione di un altro intaglio a croce: il Pozidriv, che è leggermente più grande del Phillips ed ha quattro piccoli intagli supplementari, e questo si rivelò migliore per la trasmissione della coppia di avvitamento. Per un certo periodo, nelle viti da legno, ci fu un po’ di confusione a livello produttivo, in quanto alcune aziende utilizzavano l’incavo Phillips, altre il Pozidriv; poi si arrivò ad un accordo e l’impronta Pozidriv diventò quella destinata alle viti da legno, mentre le viti per il metallo rimasero fedeli al Phillips.
L’ultima novità arrivò sempre negli anni ’90 con l’impronta Torx, chiamata esalobata per la sua forma a sei lobi; inizialmente utilizzata nella meccanica, poi largamente usata anche nel settore legno, visto il grande vantaggio che offriva, soprattutto per le viti molto lunghe e di diametro notevole.
L’innovazione determinava praticamente l’eliminazione della pressione esercitata sulla vite durante l’affondamento; infatti basta appoggiare l’avvitatore sulla vite per vederla avvitarsi da sola, senza premere come si è soliti fare con gli inserti a croce per evitare che “saltino” quando l’avvitamento è difficoltoso.
Tutto lo sforzo viene trasmesso alla vite tangenzialmente ed avvitare delle viti di notevoli dimensioni, come quelle utilizzate per la costruzione delle strutture in legno, lunghe decine di centimetri, diventa un’operazione facilissima anche senza preforatura.


venerdì 14 novembre 2014

REGGIMENSOLE E SOSTEGNI PER SPORTELLI A RIBALTA




Quante volte avete pensato di montare delle mensole a muro, evitando di utilizzare dei supporti esterni, ma con l’intenzione di nasconderli all’interno della mensola stessa? Bene, qui ve ne mostro un paio con caratteristiche interessanti, distribuite dalla HETTICH. 

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Il primo modello si chiama TITAN e prevede un fissaggio a muro con due viti laterali che bloccano la flangia di supporto del perno a muro, utilizzando ovviamente i tasselli adeguati al tipo di muro; i reggimensola hanno due asole laterali per permettere di regolare i reggimensola in fase di istallazione, fino al raggiungimento della perfetta orizzontalità longitudinale.
Inoltre, poiché i muri hanno spesso qualche fastidiosa asperità, ci sono due viti di regolazione per portare in posizione orizzontale (nel senso della profondità) il perno di sostegno; oppure si possono precaricare i perni posizionandoli un po’ all’indietro, verso il muro, per contrastare un forte carico a cui sono destinati.
Come si vede dalle indicazioni a fianco della foto, la HETTICH fornisce i dati di carico ammissibile, in funzione della superficie della mensola in questione, in relazione alla propria profondità.

Nel modello TITAN 1 abbiamo una regolazione in più, che è quella legata allo spostamento laterale del perno di sostegno, oltre naturalmente alla possibilità di inclinarlo, come nel modello precedente.
Data la particolare conformazione di questi reggimensola, oltre al foro (meglio un’asola, per facilitare il montaggio) per l’inserimento del perno, bisogna preparare nella mensola anche l’alloggiamento per ospitare la flangia di supporto, che viene così a nascondersi completamente all’interno.

Un altro articolo che ritengo possa risultare abbastanza utile, soprattutto negli ambienti ristretti, è il meccanismo studiato per ribaltare gli sportelli dei mobili verso l’alto. 

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Questa attrezzatura, nata prevalentemente per i pensili delle cucine componibili, è costituito da una staffa di fissaggio da fissare sul fianco del mobile ed una piastra angolare da collegare allo sportello, comandato da una molla che aiuta l’utente nel sollevamento in fase di apertura.
La HETTICH ne fornisce tre modelli per coprire tutte le esigenze: ci sono due angoli di apertura diversi, per i modelli che hanno la regolazione della spinta in funzione della dimensione e del peso dello sportello da sollevare, ed esiste anche un modello standard, più semplice, senza regolazione.
In basso a destra, nella pagina 262, c’è una tabella che aiuta a programmare la scelta del tipo di meccanismo da adottare, in funzione della dimensione dello sportello da montare; nella dicitura in basso io sostituirei la parola “masonite” (di cui non ricordo che siano mai stati prodotti pannelli da 19 mm. di spessore) con la parola “MDF” di cui lo spessore da 19 mm. è quello più usato per costruire gli sportelli.

L’ultimo dispositivo che voglio mostrare è decisamente più semplice del precedente e non ha regolazioni.


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Si tratta di un braccetto di sostegno per ante a ribalta verso l’alto, che entra in funzione quando si solleva lo sportello portandolo a fine corsa; a questo punto il braccetto si puntella nel sostegno in plastica fissato al fianco, tenendo sollevata l’anta. Per sbloccarlo basta sollevarla leggermente e il meccanismo si sgancia, permettendo la chiusura dello sportello.
Questo meccanismo è tipico dei pensili scolapiatti delle cucine componibili o elementi similari.


martedì 4 novembre 2014

GLI AMMORTIZZATORI PER SPORTELLI




Questa volta parliamo di ammortizzatori per gli sportelli dei mobili, ma non di quelli già inseriti all’interno delle cerniere, ma bensì dei rallentatori indipendenti che si possono montare nei mobili che non hanno le cerniere dotate di ammortizzatore, facendo però in modo da ottenere lo stesso risultato.
L’unica differenza sostanziale è che, mentre nelle cerniere il meccanismo di rallentamento rimane nascosto, in questo caso i vari dispositivi che propone la HETTICH restano in vista. 

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A pagina 138 vediamo che in alto c’è quello che si può definire l’ammortizzatore meno visibile: infatti è costituito da un cilindretto che contiene tutto il meccanismo e che viene inserito (previa foratura opportuna con una dima) nello spessore del cielo o del fianco opposto alle cerniere, incassandolo completamente fino al bordino, in modo da lasciare sporgente solo il perno su cui si appoggerà lo sportello, che lo farà rientrare completamente, senza sbattere.
Il modello successivo invece è più semplice da montare perché va applicato all’interno del cielo o del fianco del mobile con due viti, che provvedono a mantenerlo in posizione; non sono però queste viti a sostenere l’urto dello sportello, ma un bordino di cui è provvisto l’ammortizzatore per appoggiarsi sul bordo anteriore del mobile e che evita che le viti si possano muovere o svitare a causa dei ripetuti colpi ricevuti dalle varie chiusure dello sportello. 

 
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Sempre nella stessa categoria troviamo anche quello che si trova a pagina 139, che rimane a vista e va sempre applicato con due viti, che però rimangono nascoste dal pistoncino (che va inserito successivamente), rendendo il tutto meno appariscente.
Tutti i modelli trattati fino ad ora non hanno la possibilità di essere regolati ed il tempo di rallentamento in chiusura dello sportello (partendo dal concetto che le cerniere abbiano la stessa forza di chiusura), va considerato in funzione della larghezza dello sportello.
Se montiamo questi ammortizzatori al centro del pannello che costituisce il cielo del mobile, avremo una diversa velocità di rientro se, per esempio, lo sportello è largo 30 cm. oppure 60 cm. nel senso che, a parità di spinta delle cerniere, la forza esercitata in chiusura sullo sportello da 30 cm. sarà superiore a quella sullo sportello da 60 cm., quindi i tempi di accostamento dell’anta alla carcassa saranno lievemente diversi.
Se si vuole usare la raffinatezza di mantenere la stessa velocità di chiusura completa di due mobili, dovremo lavorare sulla diversa distanza dell’ammortizzatore dalle cerniere; in questo caso nel pensile da 30 cm. bisogna allontanarlo dal fianco che porta le cerniere, per avere nello sportello un braccio di leva simile a quello del mobile da 60 cm. 

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In alternativa agli ammortizzatori a controspinta fissa, come quelli che abbiamo visto fino ad ora, la HETTICH propone anche un modello registrabile che quindi può essere posizionato senza preoccuparsi di fare tante prove per trovare la posizione più opportuna, facendosi magari aiutare dalla tabella sotto i disegni a pagina 136.



venerdì 24 ottobre 2014

I REGGIPIANI




L’articolo di oggi è dedicato ai reggipiani che sono sempre stati considerati degli elementi insignificanti nel montaggio di qualunque mobile dotato di ripiani. In effetti sarebbe giusto riqualificarli, anche perché non si spiegherebbe il motivo per cui ne esistono tante versioni; ne basterebbe una sola, costituita da un cilindretto metallico da infilare dentro un foro nel fianco di un mobile, sporgendo di qualche millimetro per risolvere tutti i problemi…invece no. 

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Per esempio la HETTICH ne propone 18 tipi; è ovvio che non hanno 18 funzioni diverse ed esistono modelli che si possono scambiare, ottenendo lo stesso risultato, ma variandone l’estetica o la funzionalità; come si vede dalle annotazioni caratteristiche di ciascuno di loro, viene riportato a fianco di ogni tipo il carico massimo sopportabile per metro quadro di ripiano, sostenuto da 4 reggipiani di quel genere.

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La suddivisione fondamentale tra i vari tipi presentati si può fare fra quelli che vanno solo infilati, che vengono usati per ripiani non strutturali, e quelli che invece si aggrappano al fianco con alette di vario tipo, che invece intervengono per sostenere dei ripiani che devono partecipare a mantenere in posizione i fianchi, quando manca un ripiano strutturale a metà altezza ed abbiamo dei fianchi piuttosto alti. 

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A quest’ultima categoria appartengono, per esempio, i modelli: Sekura 1.1, Sekura 6 e Sekura 7; naturalmente i ripiani in questione devono essere stati forati nella posizione opportuna.
Gli altri dotati di alette nel gambo non bloccano il ripiano, ma lo sostengono soltanto e le alette, in questo caso, prevengono soltanto una possibile fuoriuscita dal foro (quando sono sotto carico le alette si piantano nella parte superiore del foro) e sono quindi più affidabili di quelli a perno liscio. 

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Ci sono poi quelli destinati a sorreggere i ripiani in vetro, che sono dotati di appoggi in plastica trasparente oppure di ventosa, per trattenere meglio il ripiano; tra questi ce ne sono alcuni che vengono definiti “di sicurezza” perché trattengono i ripiani molto meglio di quelli semplici e sono registrabili in funzione dello spessore del ripiano, sono a pagina 1133.
Bisogna anche dire che sono quasi tutti previsti per inserirsi dentro ai fori da 5 mm. che di solito vengono praticati nei fianchi dei mobili che permettono il posizionamento dei ripiani secondo necessità; però ce n’è uno che esiste anche nella versione con diametro 3 mm. (il primo in alto a pagina 1134), che nasce come reggipiano per ripiani in vetro, ma che si può tranquillamente usare anche per gli altri, magari sfilando il cappuccio in plastica trasparente. 

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Questi reggipiani più sottili sono nati per venire incontro a chi vuole mantenere la possibilità di spostare i ripiani a suo piacimento, ma non ama vedere tutti quei fori da 5 mm. e preferisce minimizzare la loro presenza riducendone il diametro.

Esistono poi altri tipi di reggipiani che sono più complicati perché richiedono una lavorazione particolare del ripiano per alloggiare una delle due parti da cui sono costituiti. 

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Questi reggipiani sono delle vere e proprie giunzioni tra fianco e ripiani, che pertanto diventano parte integrante della struttura, pur mantenendo la possibilità di essere spostati lungo i fianchi.




martedì 14 ottobre 2014

FERRAMENTA ACCESSORIA PER CUCINE



Io ho lavorato molto nel settore delle cucine componibili e mi è sempre piaciuto per la sua versatilità e per le diverse proposte che vengono previste per soddisfare tutte le esigenze degli utenti finali.
A partire da questo articolo, vi propongo alcuni elementi aggiuntivi di ferramenta che sono fondamentali per la costruzione delle cucine componibili, ma senza addentrarmi nel settore supertecnologico degli accessori comandati elettronicamente, che lascio volentieri a chi si vuole cimentare in tali applicazioni, rimandando le spiegazioni a quello che trovate nel catalogo on line della HETTICH nel sito: www.hettich.it.

LE  ATTACCAGLIE  PER  PENSILI

Con questo nome si intendono quegli elementi che servono a sostenere i pensili, sia che vengano appesi a dei ganci a L, sia che si aggrappino alla solita barra reggipensile da fissare al muro.
Questi supporti, che la HETTICH propone nelle versioni: acciaio zincato e plastica bianca, vanno fissati lateralmente ai fianchi, subito sotto il cielo del pensile che diventa l’elemento di sostegno del mobile; ai bordi laterali di questo vengono applicati i fianchi, che sosterranno il fondo del pensile ed uno o due ripiani con tutto quello che il cliente vorrà appoggiarci sopra. 

 
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La struttura di queste attaccaglie è tale da garantire una resistenza al carico applicato di 65 Kg. ognuna, che significa 130 Kg. per ogni pensile. Visto che il punto di sforzo maggiore è proprio nel cielo, subito sopra le attaccaglie, la HETTICH fa notare, con i disegni alla pagina 1149, quanto sia importante che in quel punto si debba aumentare la resistenza, effettuando una doppia spinatura.
Inoltre si può notare che la fodera del pensile deve essere scantonata nei due angoli superiori, per permettere ai ganci delle attaccaglie di uscire dal mobile per andare ad aggrapparsi al sostegno che è fissato al muro. Seguendo le misure indicate, siamo sicuri che, una volta fissate al loro posto, le attaccaglie nasconderanno completamente gli scassi, rendendoli invisibili a chi apre il pensile.
Dopo aver montato le attaccaglie, guardando il pensile quando lo sportello è aperto, per ognuna di esse si possono notare due viti frontali, oltre a quelle laterali di fissaggio; queste due viti servono per registrare la posizione del pensile, prima di effettuare i fissaggi di collegamento tra un pensile e quelli a fianco.
Come si vede dal disegno, la vite più in alto serve per la registrazione verticale del mobile (la barra di sostegno potrebbe non essere stata montata perfettamente orizzontale), mentre quella più in basso regola la posizione in profondità e questa è molto comoda quando la barra di sostegno è fissata sul muro, mentre in basso i pensili appoggiano su delle vecchie piastrelle montate a calce, che risultano molto sporgenti.
Regolando questa vite si riesce a sistemare il pensile perfettamente a piombo, cosa indispensabile se dobbiamo montare una cucina con composizione ad angolo.

Spostandoci adesso sotto le basi, sappiamo che queste appoggiano su dei piedini registrabili, che permettono ai montatori di sistemare il piano di lavoro in modo che risulti perfettamente orizzontale, sia in lunghezza che in profondità.

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La HETTICH propone ben 9 altezze diverse per i piedini registrabili e, se volete esagerare in altezza, vi fornisce anche un prolungamento da 50 mm.; come si vede dai disegni esistono tre tipi di pattini, da fissare sotto al mobile, dove si inserisce il gambo del piedino, ma quello che si usa maggiormente in falegnameria e a livello hobbistico è sicuramente quello da avvitare; gli altri due sono prevalentemente utilizzati dalle industrie.





sabato 4 ottobre 2014

LE GIUNZIONI AD ECCENTRICO



I mobili, che siano dotati di sportelli oppure no, sono comunque di due tipi: mobili incollati (come gli elementi di una cucina componibile), oppure mobili da assemblare, e quindi da montare in loco e con la possibilità di essere smontati con facilità, per poter essere trasferiti in un altro locale e rimontati.
Per fare questo, la struttura del mobile deve essere lavorata in maniera diversa da quella dei mobili incollati e la differenza sta nella preparazione dei fianchi, dei ripiani e degli zoccoli con opportuni elementi di ferramenta specifica, per poterli assemblare in maniera stabile ed adatta a reggere il peso per cui sono stati progettati.
La lavorazione principale di questi mobili è destinata all’accoppiamento dei fianchi con la base ed il cappello del mobile (se non è molto alto), oppure base, cappello e ripiano intermedio, se il mobile supera un’altezza che è generalmente un metro e mezzo.
I fianchi vengono forati sui lati, in corrispondenza del contatto con gli elementi orizzontali effettuando, per ciascuno di essi, due fori destinati ad ospitare le spine di legno (che avranno il foro corrispondente nei piani orizzontali) e che servono come perni di riferimento per un accoppiamento perfettamente allineato, sia in altezza sia in profondità.
Questi però sono solo perni di allineamento, mentre la struttura del mobile richiede che si debba procedere al bloccaggio delle parti fra loro, per dare solidità al mobile. Per ottenere questo risultato, sui fianchi vengono praticati altri due fori di fianco a quelli precedenti, che ospiteranno le bussole ad espansione, in ottone, che si vedono al centro della pagina 1083 del catalogo della HETTICH. 

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Dentro a queste bussole (che sono filettate internamente) vengono avvitati i perni, chiamati tasselli dalla HETTICH, e che si vedono subito sopra; questi, penetrando all’interno della bussola, ne provocano l’espansione della parte più interna in modo da farle aggrappare, con le alette, saldamente al fianco che spesso internamente è costituito da truciolare.
Nel frattempo la base, il cappello e l’eventuale ripiano intermedio vengono forati con una punta al Widia, del diametro opportuno, per ospitare l’eccentrico, il quale ha al suo interno un canale a forma di spirale predisposto per ospitare la testa del perno che abbiamo infilato nel fianco.
Una volta inserito il perno nell’eccentrico, già inserito nel fianco, bisogna fare ruotare in senso orario l’eccentrico stesso in modo che il suo percorso interno a spirale attiri il perno (e con esso il fianco) verso il proprio centro, accostando così le due parti e tenendole unite saldamente.
Ad operazione completata, per nascondere l’unica parte in vista della ferramenta, cioè l’eccentrico, si può applicare un tappo di plastica che migliora l’estetica del mobile; il montaggio completo lo si può vedere nella pagina 1083 che mostra, al centro, anche una sezione dell’assemblaggio completato e dotato di tappo.
Naturalmente gli eccentrici, i perni e le bussole possono avere forme, dimensioni e sistemi di fissaggio diversi. 

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Infatti nella pagina 1082, in alto, si può vedere un perno che si infila dentro un foro di 5 mm. di diametro, senza bisogno della bussola; nella parte bassa della stessa pagina viene mostrato un perno a doppia testa che viene usato quando il fianco è sottile ed i piani si trovano alla medesima altezza.
Per cui si pratica un foro passante e si infila il perno come in figura, si blocca con l’eccentrico il piano di sinistra, portando l’anello Seeger a contatto dell’altro lato del fianco, che lo mette in trazione, poi si inserisce il piano di destra che si può tirare tranquillamente con l’eccentrico, in quanto il perno è trattenuto dall’eccentrico sul lato opposto.