I prossimi articoli
sono dedicati ad una serie di elementi indispensabili per il fissaggio dei vari
elementi di legno fra loro, oppure per il collegamento dei diversi componenti
della ferramenta al legno o ai suoi derivati: le viti da legno.
Facciamo un po’ di
storia: le viti metalliche fecero la loro apparizione in Europa nel XV secolo,
ma divennero di uso comune solo nel XVIII secolo, quando si trovò il sistema
per produrle in grandi quantitativi; infatti nel 1797 l’ingegnere britannico
Henry Maudslay brevettò un tornio per la loro produzione e, l’anno successivo,
un dispositivo simile fu brevettato negli Stati Uniti da David Wilkinson.
Le viti da legno
avevano inizialmente una forma conica; erano di acciaio dolce, non temprato, ed
avevano sulla la testa un semplice intaglio per poter procedere al loro
inserimento nel legno.
Il fatto che non
fossero temprate rendeva obbligatoria una certa cautela nell’avvitamento, per
non danneggiare l’intaglio, e molto spesso era necessario un preforo per
guidarle opportunamente ed evitare che il legno si spaccasse, per effetto della
conicità, che portava ad un graduale aumento del diametro, durante l’inserimento,
sia che fossero di acciaio oppure di ottone.
Per molto tempo la
forma delle viti è rimasta praticamente la stessa, nelle varie versioni: a
testa piana svasata, a goccia di sego, o a testa cilindrica; il grande
cambiamento lo si è avuto negli anni ’80 e si sono sviluppate parallelamente
agli avvitatori elettrici, che erano la grande innovazione del momento, visto
che permettevano di velocizzare moltissimo i tempi di inserimento delle viti.
Però la forma delle
viti fu modificata, da coniche diventarono cilindriche con l’anima più sottile
ed il filetto elicoidale molto più tagliente e spaziato; oggi le viti Panelvit
sono prodotte in acciaio al carbonio, trattate termicamente ed infine
lubrificate per ridurre lo sforzo durante l’avvitamento. Inoltre il modo di
produrle è cambiato e non si ottengono più per tornitura, ma per rullatura che
permette di ottenere il medesimo risultato, ma senza asportazione di truciolo.
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Però le viti con
l’intaglio semplice non erano adatte all’uso degli avvitatori perché l’inserto
a taglio montato sugli avvitatori non riusciva a rimanere centrato sulla vite,
durante la penetrazione nel legno, ma tendeva sempre ad uscirne, con il rischio
di danneggiare il pezzo in lavorazione.
Ci voleva qualcosa di
innovativo e l’americano J.P.Thompson trovò la soluzione, inventando la vite
con la testa a croce, di cui vendette il brevetto a Henry Phillips, fondatore
della Phillips Screw Company. In un primo tempo però Phillips incontrò delle
difficoltà a trovare un’officina in grado di intagliare il nuovo tipo di testa,
finchè non contattò la American Screw Company che credette nell’idea e fu
disponibile ad investire in questo nuovo tipo di intaglio, che poi ebbe un
grande successo.
Il grande vantaggio di
questa innovazione fu appunto di creare un incavo che permetteva di mantenere
centrato l’inserto montato sull’avvitatore, permettendo di premere sulla vite
durante l’avvitamento per farla affondare facilmente e senza correre il rischio
che l’utensile sfuggisse dalla vite, provocando dei danni.
Questo tipo di
intaglio si diffuse a molti tipi di viti, sia a quelle destinate ai lavori di
falegnameria, sia alle viti utilizzate nel settore della carpenteria metallica,
quindi alle viti a passo metrico (oppure in pollici), alle viti autofilettanti
ed alle future autoperforanti.
Poi, negli anni ’90,
ci fu l’introduzione di un altro intaglio a croce: il Pozidriv, che è
leggermente più grande del Phillips ed ha quattro piccoli intagli
supplementari, e questo si rivelò migliore per la trasmissione della coppia di
avvitamento. Per un certo periodo, nelle viti da legno, ci fu un po’ di
confusione a livello produttivo, in quanto alcune aziende utilizzavano l’incavo
Phillips, altre il Pozidriv; poi si arrivò ad un accordo e l’impronta Pozidriv
diventò quella destinata alle viti da legno, mentre le viti per il metallo
rimasero fedeli al Phillips.
L’ultima novità arrivò
sempre negli anni ’90 con l’impronta Torx, chiamata esalobata per la sua forma
a sei lobi; inizialmente utilizzata nella meccanica, poi largamente usata anche
nel settore legno, visto il grande vantaggio che offriva, soprattutto per le
viti molto lunghe e di diametro notevole.
L’innovazione determinava
praticamente l’eliminazione della pressione esercitata sulla vite durante
l’affondamento; infatti basta appoggiare l’avvitatore sulla vite per vederla
avvitarsi da sola, senza premere come si è soliti fare con gli inserti a croce
per evitare che “saltino” quando l’avvitamento è difficoltoso.
Tutto lo sforzo viene
trasmesso alla vite tangenzialmente ed avvitare delle viti di notevoli
dimensioni, come quelle utilizzate per la costruzione delle strutture in legno,
lunghe decine di centimetri, diventa un’operazione facilissima anche senza
preforatura.